Curati, coccolati, accolti ma liberi: chi è il cane di quartiere e cosa prevede la normativa dedicata?
Non tutti i Paesi del mondo sono intensamente interessati dal fenomeno del randagismo ma, allo stesso tempo, c’è da dire che non solo l’Italia si è ritrovata a cercare delle soluzioni efficaci per contrastarlo. Da un lato, con campagne di sensibilizzazione che mirano a creare consapevolezza e ad ostacolare i sempre troppi numerosi abbandoni; dall’altro con il lavoro delle ASL Veterinarie che si occupano di gestire gli animali presenti sul territorio attraverso sterilizzazioni e interventi d’emergenza in caso di incidenti, ferimenti e altri imprevisti. Certo, quando vediamo i nostri cuccioli appallottolati sul divano di casa o intenti a mangiare una ciotola piena di buon cibo, la differenza netta tra le vite condotte da un cane padronale e uno randagio sembra incolmabile. Ma non dobbiamo dare tutto per scontato: ci sono quattro zampe fortunati e altri più sfortunati, è vero, ma esistono anche cani profondamente indipendenti che adorano la compagnia umana e che, al contempo, preferiscono vivere fuori dalle quattro mura di un appartamento. In quel caso, concordare delle semplici regole con il vicinato e pensare ad una possibilità di cane di quartiere può essere la soluzione migliore da prendere in considerazione!
Una (frastagliata) normativa regionale
In realtà, sono tante le situazioni in cui la normativa riguardante il cane di quartiere può rivelarsi utilissima. Non è certo, ovviamente, una soluzione al randagismo né una garanzia assoluta di sicurezza per gli animali coinvolti: è, però, un valido strumento che può loro assicurare un minimo di protezione e attenzione, contemporaneamente evitando nascite incontrollate e un conseguente aumento esponenziale dei cani su piccole fette di territorio che, in ogni caso, con il tempo potrebbe davvero diventare un serio problema.
Un cane di quartiere, in sostanza, è un randagio che viene adottato da una comunità, naturalmente a patto che ci sia compatibilità totale: un animale aggressivo, già segnalato alle ASL per comportamenti molesti o che, magari, non vede di buon occhio i bambini difficilmente potrà diventare un amico del circondario perché la convivenza sarebbe ardua e difficile da gestire.
L’unico grande problema è che non esiste una normativa nazionale: ogni regione ha formulato il proprio personalissimo regolamento, sulla base della legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo n.281 del 1991 che delegava questo tipo di incarico dando indicazioni soltanto sui principi fondamentali da seguire. Con gli anni, questo processo è finalmente terminato e, nel 2001, la Circolare del Ministero della Sanità n.5 ha finalmente ufficializzato la figura del cane di quartiere.
Al netto delle differenze che possono intercorrere tra un regolamento regionale e l’altro, quindi, vale la pena capire quali sono i percorsi generali attraverso i quali un randagio può diventare parte integrante di una comunità.
Da randagio a cane di quartiere
L’iter standard da seguire è questo:
- un canile sanitario (generalmente, quello connesso all’ASL Veterinaria di riferimento) deve dichiarare il cane clinicamente sano – questo per evitare che possano verificarsi situazioni spiacevoli in cui il povero quattro zampe diventi veicolo di malattie per altri cani o addirittura per gli umani;
- sempre presso la struttura di riferimento, il cane va vaccinato per le malattie più comuni e sterilizzato – non si può tenere un cane intero e libero di procreare sul territorio;
- tassello importantissimo, l’iscrizione all’anagrafe canina attraverso il microchip che conterrà le informazioni relative al Comune di appartenenza e alla persona che diventerà responsabile del peloso.
In alcuni casi viene fatto anche un sopralluogo da parte di un veterinario incaricato esperto che possa valutare l’ambiente che divideranno umani e cane.
Si tratta di un percorso, in fondo, molto meno impegnativo di quel che si potrebbe pensare: innanzitutto perché tutte le spese sono a carico del Servizio Sanitario! Le uniche cose di cui devono preoccuparsi i componenti della comunità – rappresentati dal volontario responsabile – è di assicurare sempre cibo, acqua e riparo (soprattutto per le notti più fredde e piovose) al cucciolone, controllando che conduca un buono stile di vita, mantenendosi in salute.
È anche opportuno ricordare che l’ASL Veterinaria consente un controllo annuale gratuito (anche per i cani padronali), attraverso un prelievo sanguigno, della leishmaniosi.
Una raccomandazione.
Poter riconoscere immediatamente un cane di quartiere può essere fondamentale: chiunque potrebbe confonderlo con un animale randagio e portarlo via dal territorio di appartenenza. A questo scopo, meglio dotarlo di un segno di riconoscimento, come un collare e/o una targhetta che, magari, riporti anche il numero di telefono del tutore.
In alcuni casi, i cittadini riescono ad organizzarsi con associazioni protezionistiche che si offrono di monitorare questi animali ed eventualmente gestirne situazioni di improvvisa problematicità. Anche il sindaco, volendo, può essere messo al corrente dei cani di quartiere presenti sul territorio da lui amministrato.
Come orientarsi?
Le normative regionali e comunali – trattandosi di materia sanitaria – possono differire parecchio tra loro: il consiglio è di rivolgersi presso gli uffici sanitari del Comune di appartenenza e chiedere informazioni specifiche.
I cani da quartiere sono, a tutti gli effetti, riconosciuti dalla legge come animali adottati, ma da un gruppo di persone piuttosto che da una singola famiglia: sicuramente, un’opzione migliore – ove possibile – della gabbia di un canile dove trascorrere le giornate aspettando soltanto il momento della mezz’ora di sgambamento.